Ferruccio Orusa

Ferruccio Orusa, nato a Savigliano nel 1947, dopo aver trascorso l’infanzia in un paese del saluzzese, Costigliole Saluzzo, che gli lasciò molti ricordi di vita, riportati nei componimenti poetici, si trasferì nella prima adolescenza a Savigliano, dove già aveva maturato alcune ma significative esperienze formative. Compiuti gli studi presso il Liceo classico, si laureò in Filosofia, con indirizzo psicologico, presso l’Università degli Studi di Torino. Ha praticato la professione di insegnante di lettere senza tuttavia trascurare il proprio interesse per lo studio della formazione e lo sviluppo della psiche umana. Ha frequentato, infatti, a Torino sin dal 1992 il Centro di Studi Metis, presso il quale ha assistito a lezioni, gestito gruppi di studio e conferenze. Frutto più significativo di questo lavoro sono state le ricerche personali poi raccolte nel volume “Alla ricerca del padre”. Ora lavora come collaboratore ad un gruppo di psicologi, che svolgono varie indagini freudiane o lacaniane, denominato Filikì Eteria a Torino. Sempre attivo nel mondo saviglianese con interventi in ambito culturale, si dimostra non dimentico della sua primitiva formazione umanistica. Ha ripreso, infatti, in questi anni la produzione di componimenti poetici, presso l’associazione saviglianese “Clemente Rebora”.
La sintesi tra le varie matrici culturali, che ebbero ad influenzare ed ispirare Ferruccio Orusa sono ben presenti nei suoi componimenti.

A mia madre

 

Ti ricordo coi tuoi affanni,

le tue premure e le tue ansie,

le speranze ed i presti disinganni.

Avesti cura della famiglia,

come la chioccia che provvede ai pulcini.

Il mondo, fuori dalle mura di casa,

fu poca cosa per te: passavi solitaria tra la gente

che poco ti conobbe: timida, signora e riservata.

Sorridevi a chi incontravi, schiva di confidenze.

Tenesti sempre quel fare distinto

che sedusse mio padre.

Tutto in casa girava intorno a te:

tuo marito, i tuoi figli, i tuoi nipoti.

Portasti nel cuore un antico dolore

chissà quale, chissà perché,

che invase tutti noi che ti fummo accanto.

Rara in te la gioia negli ambienti casalinghi,

che, invece, simulavi a chi era forestiero.

Ti fu avara finché fosti solo moglie e madre,

mi chiedesti ascolto per dei crucci

che vennero meno quando ti scopristi nonna,

perché le novelle gioie ti smorzarono

le vecchie angosce.

Ti ringrazio per la vita che mi hai dato,

con la gentilezza nostalgica che era tua,

che mi hai trasmesso e mi ha segnato:

perché questa è la vita di noi mortali.

 

Angelino

 

Con la mano abile, con gesti saputi

tagliavi sottili strisce di legno

dai rami di castagno freschi di raccolta,

per poi intrecciarle e per farne ceste o gerle.

Le tempravi al calore negli spigoli più aspri.

Quand’eri giovane facesti il barbiere

e conservasti l’arte del mestiere,

di cui qualcuno, come mio nonno,

fruì come servizio a domicilio.

Te ne arrivavi minuto e  zoppicante

con un ramino, il rasoio, il pennello

e poi con maestria muovevi la lama

su quel volto ormai stanco e sfatto.

Veniva con te un piccolo cane

col pelo adattato come tu lo volesti.

Ti fu fedele ed affettuoso come tu fosti a lui,

come se fosse stato una tua creatura.

Ti fu vicino quel giorno quando,

col carretto caricato di ceste e di gerle

te ne andavi al mercato per la solita via,

ed incontrasti la morte.

Ti fu vicino più di tutti

quando ti vide cadere sull’asfalto

e mugolando cercò di comunicar con te.

Te ne andasti così

e dopo un mese se ne andò

da solo anche il tuo animale,

perché ormai non aveva senso la sua vita

su questo mondo.

 

 

Gattinara

 

Si respirava un’eleganza in quella casa,

in quella villa campagnola, Gattinara,

che ora non c’è più o non è più tale.

Il glicine saliva sul pergolato,

accostato al viale, col battuto di acciottolato,

dal cancello all’abitato

e la fontana che buttava l’acqua senza posa

in un giardino

pieno di fiori dai più variegati colori

nelle belle stagioni,

o immerso nelle nebbie col freddo ed il ghiaccio

nel sopravvento degli invernali rigori.

La famiglia mi fu sempre accogliente e generosa:

un po’ burlone il padre, affettuosa la madre,

pronto al riso il fratello maggiore

cogli occhi splendenti e accattivante la sorella

più dimesso ma sempre familiare il minore.

Diversi in compagnia per indole i fratelli

protetti dal mondo in quel castello incantato.

Si sentiva il muggito degli armenti della cascina accanto,

lo starnazzare delle oche,

il verso concitato delle chiocce che uscivano dalle ceste,

il nitrito dei cavalli, le urla dei massari,

si vedevano i colombi volare sulle nostre teste.

Il tutto coi profumi della campagna

che mi piacevano tanto,

che mi facevano tornare ad un mondo

che altrove era stato mio.

Forse per questo mi sentivo di casa,

anche se ero forestiero.

E la gentilezza diffusa di chi mi fu ospite

mi alimentò primigeni ricordi

che mi portavo appresso,

e tuttora vivono

come radici della mia persona.

 

 

Il libro della vita

 

Chi mi mise al mondo mi diede la matita

ed un libro per riportarvi la mia vita

e mi insegnò la grafia

per narrarvi le mie esperienze.

Ma col tempo appresi un modo tutto mio

di trascrivere ciò che vivevo,

un modo tanto mio che rimase oscuro agli altri,

a volte poco chiaro anche a me.

Trascolorò il senso del mio vissuto,

chiuso nello scrigno dei miei ricordi.

Vi riposi anche i sogni, le fantasie ed i sentimenti,

che ancora oggi  mi animano

e vibrano dovunque io vada.

Torna caro rivisitare questo mio passato,

troppo ricco di esperienze,

piacevoli e dolorose ma necessarie alla vita,

troppo misterioso per essere trascurato,

troppo bello da non suscitare

orgoglio di essere stato vissuto,

troppo pieno di ricordi che inducono

riconoscenza e umanità, pietà

verso chi mi ha insegnato a scriverlo.

Lascerò a chi mi ama questo libro,

per un’eredità d’affetti,

misterioso come mi fu il senso della vita

di chi mi  volle al mondo.

Tanto più è forte la legge che lo asconde,

in un divieto che lo nega,

tanto più è seducente per chi già ora

lo riceve in dono.

 

Inverno

 

Fende un fascio di luce la folta nebbia:

il gorgoglio dell’acque diventa fiume,

la galaverna imbianca i rami spogli.

Un airone cinerino indifferente al freddo

cerca nel fondo il cibo quotidiano,

s’odono corvi gracchiare.

Torna la nebbia e tutto copre

come una palpebra di un corpo stanco

voglioso ancora di letargo.

 

 

La cascina abbandonata

 

Accarezza il vento le pietre delle tue vecchie mura,

s’ode il fruscio dei miei passi sull’incuria che da anni

abbandonò le foglie secche nel cortile.

Cigola la porta, ma le stanze che conobbi

piene di vita e di voci domestiche

ora son vuote e silenziose.

Nella stalla una greppia, pochi anelli, ceste al muro.

Dove sono gli armenti, di cui vidi le forme

di cui sentii i muggiti, i belati, di cui gustai i prodotti?

La stia non ha più forma.

Il ballatoio, d’assi contorte, dice il suo tempo.

La vecchia scala, esposta all’intemperie, ormai cede.

La vite inselvatichita sale sopra le tegole, tutto invade.

Volteggia in cielo un falco

ma non trova i pulcini di cui fu predator vorace,

vede una serpe tra le rocce e l’artiglia.

Veloce s’alza in cielo con il premio, ormai inerte,

del lavoro da recare al suo nido.

Nel pozzo l’acqua, le ombre, le luci diafane

e l’eco delle mie voci

mi richiamano ricordi antichi.

Ma il muschio che l’invade mi disillude,

i rovi e gli arbusti non hanno pietà:

tutto sommergono e nessuna falce più li respinge.

Torno al mio mondo

e lascio che la natura si riprenda ciò che fu suo.

 

La mia città

 

Colsi la tua bellezza ancora adolescente,

inebriato della tua piazza medievale,

con le linee sinuose e lunghe.

Scorsi in quel monumento

un aspetto severo, segnato da una storia

che solo altrove avevo conosciuto:

l’incuria aveva quasi cancellato la tua nobiltà.

Cogli anni, per amor della propria terra,

in un tenace lavoro collettivo,

chi seppe riconoscerti ripristinò la tua identità.

Sei ora  graziosa, coi palazzi ripristinati

tardo  gotici o rinascimentali, 

le chiese romaniche o barocche, le torri,

i monasteri, i conventi destinati ormai ad altro uso,

le ville sparse nella campagna, una volta castelli,

le cappelle votive, con riti pagani,

travestiti in simboli cristiani,

le strade campestri che, col loro percorso,

sussurrano un antico passato.

Eri sonnolenta, negli anni addietro,

perché celavi ai più le tue fattezze.

Piacevi a chi ti viveva

di un semplice affetto quotidiano.

Un lavoro attento scoprì dietro le facciate sciatte

un passato elegante ed austero,

raccolse cimeli di una storia

che ti aveva resa nobile nel tempo.

Così aggiunse a quell’affetto consueto e primigenio

una ricchezza di forme sconosciuta.

Così sei oggi, raccolta intorno alla tua torre possente.

Non so dove andrai, mi sfuggi e mi incanti,

hai ancora tesori da scoprire,

che tieni nascosti come una donna seducente.

Rimpiango quelli che in te vidi, ma da fanciullo non colsi,

e pur rimembro, ma sono andati perduti

per l’azione di persone dissolute.

Intanto, quando passo sulle sponde dei tuoi torrenti,

nei tuoi giardini, nelle vie e nelle piazze

che fanno il tuo cuore antico, 

mi sento tuo e respiro la tua storia.

 

 

L’emigrante

 

La barca tra i marosi scivolava incerta

percorrendo sentieri reiterati già da millenni

da chi fece la civiltà o la raccolse decadente.

Curvi la schiena a cogliere la verdura,

alzi le mani ad afferrar le frutta tra i rami frondosi,

tra il canto di chi ti fu compagno sul traghetto,

e non sai che lo stesso lavoro già altri

venuti da luoghi diversi dal tuo

fecero qui lo stesso mestiere secoli andati.

Si provvidero ricchezze ed ora ti sono padroni.

Muovi le mani veloci sui telai,

tieni negozi, eserciti lavori artigianali

ricordando che ora sei nella vita un diverso,

come diversi furono i nostri

che andarono altrove a cercare fortuna.

Accompagni ed accudisci con fare provvido

le mandrie e le greggi che ti hanno affidato,

pensando alle poche bestie che hai abbandonato.

Lavori nelle case, diverse da quelle del tuo Paese,

in servizi che altri fecero ed ora hanno in dispregio.

Ricordi la barca tra i marosi che scivolava incerta

e la famiglia che hai lasciato nella tua terra.

 

 

Novembre

 

Sfumano le nebbie e declina il sole,

le terre arate e seminate si preparano

ad un lungo letargo.

Il pensiero va ai morti:

tanti volti ormai non sono più.

Volti che nella terra giacciono consunti,

in un ciclo vitale che tutto involve.

Ma nel ricordo restano,

coi loro gesti, gli sguardi, or miti or severi,

ilari e felici o tristi e pensierosi,

nel trasmutar del tempo e degli umori.

Il trascolorare di chi

partecipò ai nostri affetti,

resta indelebile nella memoria,

dopo una lotta affannata

o un declino accettato,

rimane in noi.

I fiori che, come essi,

ebbero i virgulti della giovinezza,

la bellezza della maggiore età

ed il languore del declino,

posano sulla tomba

a suggello della vita di noi mortali.

 

 

Paternità

 

Fosti felice

con ciò che ti diedi,

facendolo tuo,

e tanto trasmetti.

Questo mi rallegra.

 

 

                    

 

 

 

 

Sera d’Inverno

 

Scorrono le acque del fiume

sotto i rami imbiancati di brina.

Giungono profumi di foglie secche bruciate.

Si diffondono le nebbie

sui prati e sui coltivi.

Il tramestio delle acque si mescola

ad un rumore indefinito.

I bagliori della città imbiancano l’aria,

s’odono stridere ferri sulle rotaie.

Dolce scende la notte

a coprire il lavoro e la natura.

 

 

Transumanza

 

Nella piana si lavora ai consueti mestieri,

salgono le mandrie all’alpeggio,

vanno sotto lo sguardo dei valligiani,

in un percorso ormai consacrato dal rito.

Per ripe scoscese o per valli sospese

si pascono con fare consueto.

Al grido attento del pastore si muove

ubbidiente il cane guardiano.

Fischiano le marmotte

per richiamarsi al rifugio

che le ripari dalle stie

che, a valle, le farà prigioniere

anche se di ciò son ignare, ma presaghe.

Gli animali selvatici si vedono insidiato

il cibo quotidiano,

non avendoli l’uomo sottomessi

al giogo nel gregge.

Nelle baite si traduce il latte

per il tempo che verrà,

per sostegno nella magra stagione.

La natura confonde l’uomo e gli armenti

coi rigori, le calure e la fatica

tempra e consuma

anche chi a quest’opera è più uso.

Tutto sottomette, tutto trasforma.

Celebra il pastore un breve distacco

da questo ciclo inesorabile,

col focolare e le arti della sopravvivenza

alla ventura transumanza.

 

 

Virginia

 

Misteriosa ai più restò la tua magione

che dominava il paese, come tu dominavi

la servitù cui era concesso l’ingresso per il servizio,

ed aveva come dovere il silenzio e la devozione.

Ultima discendente di una casta nobiliare

mantenesti l’alterigia verso il popolo del paese,

ti negasti il piacere della compagnia

segnando la tua vita col distacco, la noia, la superbia,

avendo in spregio la laboriosità e la comune allegria,

anche della borghesia.

Tenesti sempre segreto un figlio,

frutto delle segrete tue voglie

mentite in pubblico ma soddisfatte in segreto,

preferite al disdegnato matrimonio

per presunto degrado sociale,

che avrebbe tradito un blasone,

un giuramento patriarcale.

Lo vivesti figlio tuo e della vergogna,

benedetto, dissero, da chi fu suo padre,

ma maledetto dalla sorte.

Uscì dal ventre della madre

covato nella casa

che lo accolse e lo tenne chiuso fino alla morte,

come segno del ripudio che gli regalasti.

Uscì dalla casa, con tacito funerale,

per finire inumato,

come se l’accesso alla vita

fosse stata una sua infamia,

una sua richiesta indebita,

un suo peccato.

 

 

A mia nonna

 

Ricordo quel tuo volto gentile e campagnolo,

la pelle temperata dalla fatica e dal sole.

Eri sempre sorridente,

mi accoglievi tra le tue braccia generose

di darmi ciò che altrove non avevo trovato.

Ricordo il calore e la sincerità dei tuoi abbracci

la spontaneità delle tue premure,

dei tuoi pensieri gentili,

che, come fiori variopinti e profumati,

tenevano lontane altre malinconie.

Erano forti le tue mani, orgogliose di

insegnarmi a trattar amorevolmente la terra

con disponibilità alla collaborazione,

non al comando.

La fiducia che riponesti in me

nell’apprendere arti nuove

mi fece coraggioso negli studi.

La tua volontà di resistere alla fatica,

ti fece donna, forte e virtuosa.

Così fosti operando nei lunghi e reiterati lavori,

anche nella sopportazione al dolore

nella tua combattuta malattia.

Questo mi lasciasti in dono quando ti penso,

per una memoria di sprone alla vita ed al lavoro.

Questa eredità d’affetti mi hai trasmesso

e di tanto ti sono grato.

 

 

Borgo antico

 

Dolci colline, dove curioso e attento

appresi i rudimenti di giocosi lavori,

m’industriai in  arti creative,

andai a cercare frutti di bosco,

scesi per i declivi con altri monelli,

ed imparai a difendermi da improvvisi

mutamenti di una natura selvaggia.

Dolci colline, v’incontro per ricordar

la culla del mio primitivo sapere.

Strade del borgo antico dove passai per lieti giochi,

ansimante, sull’acciottolato,

sotto Porta Graffiona, per nulla affascinato

della sua forma austera.

Corsi davanti ai castelli, di cui sapevo poco.

Or vi trovo orgogliosi nel dirmi il vostro passato.

Ricordo il rumore degli zoccoli dei cavalli

o dei buoi che tiravano ansimanti

il carro stridente alla salita,

e noi, fanciulli, noncuranti della fatica dei bovari,

che spingevano le bestie al lavoro,

salivamo sugli alberi in un gioco senza quartiere.                                      

Scendevano dagli usci le donne coi secchielli

per cogliere l’acqua alla fontana,

mentre gli uomini tornavano dal lavoro

colla giacca alla spalla ed il fazzoletto al collo. 

Vengo a contemplar reliquie dal tempo lasciate:

monumenti, un segno del passato,

pietre scolpite, chiese affrescate,

manieri di difesa con il borgo sottostante

a quello medioevale.

Poi ville sparse nei clivi della collina,

disseminata di coltivi,

abitate da mercanti o contadini intraprendenti.

Su tutto passa il tempo, tutto trascende.

Vedo su questo spazio calarsi la storia e gli affetti

di chi visse e per secoli tramandò un sapere.

 

 

Il bambino ed il lavoro                    

 

Erano genti laboriose in quegli opifici,

dove il martello picchiava sull’incudine e soffiava la forgia,

dove vedevo plasmare con forza demoniaca i metalli.

Scoprivo le automobili crescere, giorno dopo giorno,

da semplici strutture portanti, i “sassì”,

trasformate da un lavoro collettivo,

con l’aggiunta paziente e metodica di parti, in prodotti finiti,

luccicanti e pregni di un odore nuovo e accattivante.

Ricordo i barattoli delle vernici, che ricoprivano le lamiere,

già martellate con pazienza certosina,

per conferire ad esse un colore nuovo e luccicante.

Artefici del prototipo in legno era il reparto dei “minusiè”

con quel profumo di legno nuovo

dove mi recavo a rubare i chiodi e i pezzi di assiti,

con cui creare qualcosa di mio.

Circondati da un alone misterioso erano gli uffici

dove si preparavano su carta i modelli da realizzare.

La sirena del mattino chiamava al lavoro

ma, noncuranti di essa, nella paglia, le galline covavano le uova

e, nelle stie, i conigli brucavano l’erba,

che la man solerte delle massaie aveva presto recato.

Nell’orto, nel frutteto e nella vigna, crescevano frutta e ortaggi

che una pazienza contadina di donne forti sapeva alimentare.

Crebbi nel grembo di questa comunità,

assistito dagli avi materni nella mia prima età,

quando la fantasia correva sui prati

e rivestiva di significati antichi e simbolici i fossi,

i filari delle viti, i noci scuri e severi.

Piansi contro la civiltà, che prepotente divorò

la mia collina, la nostra collina,

dove vissi con parenti coetanei un’infanzia piena di sogni.

Era il crepuscolo degli spiriti immanenti e l’alba degli uomini,

quando mi iniziai ai libri di scuola, assistito da figure sagge e prudenti,

che mi trasmisero l’etica contadina di un rapporto

con la cultura e con la natura, nel rispetto di questa,

per averla amica, capace di soddisfare i bisogni primari.

Strana comunità, quella in cui vissi, diversa da altre che conobbi,

cenobio di tradizioni artigiane e contadine, con impronta patriarcale,

che plasmò in me le esigenze più vere e più antiche di una vita associata.

Erano le sere di tutte le stagioni,

fredde d’Inverno, profumate in Primavera,

afose nell’Estate e malinconiche nell’Autunno,

quando il lavoro terminava e pazienti, stanchi,

uscivano dall’opificio gli operai sulle biciclette,

accompagnandosi a stormi, in quei percorsi consueti.

Ma qualche ostinato rimaneva, per cogliere il gusto estremo

di un lavoro più forte, più vivo, anche nelle giornate del Sabato

o nelle mattine della Domenica,

ed orgoglioso tornava nel meriggio dei dì festivi per mostrare

a parenti od amici di aver realizzato la propria arte.

Tutto era come se il tempo fosse tornato indietro di sessant’anni

e l’etica del lavoro fosse rimasta giolittiana.

C’era una volta questo mondo del lavoro

ed io crebbi nel suo grembo, stupito ed innamorato.

Quando me ne sovviene il ricordo, lo cerco nel mio passato,

e più ci penso e più mi rendo conto che l’ho fatto mio.

 

 

Il mulino

 

Scandisce il tempo la ruota.

Ai sogni dell’adolescenza mi porta

alle cose fatte,

ai progetti di un domani.

Gira indomita la ruota

e segna l’ora

anche per il passeger

che non la guarda

e va indifferente.

 

 

Kathrine

 

Ti facevi chiamare così, fuggivi un triste passato.

Te lo leggevamo nel volto,

anche se parlavi poco di te

Cercavi una piccola e grande fortuna:

volevi salvarti la vita.

Avevi i capelli neri, raccolti in treccioline,

neri come la tua pelle, neri come i tuoi occhi,

sempre sorridenti.

Cantavi nella tua lingua, ma sapevi parlare la nostra,

leggevamo in volto la tua vita trascorsa

nelle cicatrici che portavi sulla pelle.

Nel tuo negozio ricamavi su tessuti grezzi,

per venderli insieme alle ceste

ed alle sculture in legno

che ti facevano avere.

Non so a chi facesti del male,

con la tua vita laboriosa e composta.

Ma qualcuno osò fartene.

La fuga dal mondo in cui eri nata

finì quel giorno,

si fermò quando il tuo negozio non fu più aperto

e trovarono il tuo corpo senza vita.

La tua fuga rimase un sogno, un’illusione.

La violenza, a cui pensavi aver girato la schiena,

tornò su di te 

Ti ghermì come un avvoltoio.

 

 

La famiglia

 

Scendono i raggi a sfiorare

le foglie dei castagni

che coprono un religioso e pagano convivio.

Sfumano le nebbie leggere sui declivi.

Vanno le parole dei partecipanti

al lavoro consueto, alle esperienze del mondo,

ai pargoli ed alla vita che li attende,

agli avi che lasciarono eredità d’affetti,

numi tutelari di una famiglia patriarcale.

La comunità sigla questa appartenenza

che generosa cementa uomini e donne

in un mutuo scambio di opere

nel piacere e nell’affanno,

in un tacito legame più forte

delle leggi civili.

 

 

L’abbraccio

 

Un arcipelago di tenerezze

in un oceano di dolce malinconia

 

 

Maddalena

 

Così ti ricordo: con la gioia nel cuore

senza il peccato di essere donna,

accudivi i pargoli stringendoli al petto

accarezzandoli sin dal primo mattino.

Presta nei lavori di casa attendevi a loro

ed al tuo marito artigiano

che tornava mai stanco dal suo lavoro.

Ti invidiavano le pettegole

col loro riso acido,

che diceva tutta l’incapacità di dare

ciò che tu sapevi donare.

Si vedevano già sulla porta di casa

le liberali gesta d’affetto

e s’intuivano nel segreto

gli abbracci, i baci, le gesta d’amore

con chi condivideva soddisfatto con te la vita.

La tua persona sinuosa e contenta

si muoveva agile e leggera sul ballatoio,

noncurante degli sguardi indispettiti di chi

puritana non sapeva esprimersi così.

Altri ti avrebbero desiderato, ma fosti fedele.

Felice crebbe la tua prole

nell’armonia domestica, nell’amore consacrato,

in un corpo libero e senza peccato.

Anche quando i tuoi capelli assunsero un altro colore

la tua bellezza non mutò

perché era quella che portavi dentro.

 

 

Pargoli

 

Virgulti di una vita nuova,

eredi di un mio passato

prossimo e lontano,

dolce il mio vedervi

ansioso il mio pensarvi

in un mondo a voi ignoto.

 

 

Radici

 

Vesti trascorse, figure austere, altre dimesse,

volti spauriti da un primo approccio alla storia,

un patriarca, la moglie coi figli accanto.

Tutti con gli abiti da festa, a dire

ai posteri la loro presenza,

il legame, la discendenza.

Tante storie in quei volti,

tramandate come un poema epico,

che mi sento correre nel sangue.

Quella casa, quelle pietre,

quella natura circostante, dura e severa.

Dura e severa come il lavoro nelle baite,

nei campi, nell’oltremare,

in un ritorno a volte solo sperato,

talora concluso.

Una storia che conosco solo a tratti,

di cui mi sono fatto un mito,

che sento mi appartiene.

 

 

Teresa

 

Mi dicevano che quand’eri giovane cantavi,

quando ti conobbi non lo facevi più:

avevi sempre un semplice sorriso che t’illuminava il viso.

Per ricamare o per fare maglia lavoravi all’arcolaio

al tombolo, al telaio.

Un vicino ti portava ciò che aveva nell’orto,

e tu eri paga di quello e di poco altro.

Bevevi il caffè alla cicoria,

andavo a prenderti l’acqua alla fontana

mi pagavi con la liquirizia e con una carezza.

Poi ti stavo a guardare,

passavo delle ore, a sentirti raccontare

delle storie vecchie del mio paese

che la mamma non conosceva.

Non so da dove ti venisse tutta quell’arte

e quella pazienza per dipanare,

per far la maglia, per ricamare.

Quando mia madre non sapeva dove fossi

veniva a cercarmi da te, e lì mi trovava.

Avevi una stanza sola con poche sedie,

la dispensa, il guardaroba, il tavolo,

la stufa, il divano letto, la credenza

ed il lavandino col secchiello.

Ma eri contenta, ti bastava quello.

Ti trovò una mattina ancora nel letto

chi doveva ritirare una maglia, proprio quel giorno.

La maglia era pronta,

anche tu eri pronta per lasciarci

e nessuno avrebbe più visto il tuo sorriso.

 

 

Vent’anni

 

Vent’anni, lo zaino sulle spalle,

lo stesso che mi fu compagno

sui monti della mia valle.

Luoghi sconosciuti,

profumi mediterranei inebrianti.

Cortesia richiesta e spesso soddisfatta.

Città, chiese, palazzi, piazze, musei

patrimonio della storia fatta dai nostri avi,

che ci aveva fatto uni, liberi, non schiavi.

Assiso davanti ad un monumento,

alla gente mescolato,

che davanti ad essa passava indifferente

forse consueta, forse insipiente, 

feci mia l’arte.

Respirai l’aria delle notti stellate,

dove riposai le stanche membra affaticate

dalle lunghe camminate.

Così è la civiltà:

cogliere l’eredità d’affetti

e sapere, nel mutuo scambio,

maturare un’esperienza,

anche con doloroso strappo,

da donare a chi verrà.

 

 

A mio padre

 

 

Il tuo consueto modo di fare

diceva di un’infanzia malvissuta,

di un’adolescenza incompiuta,

di angosce che ti avevano turbato la vita.

Vissi insoliti i tuoi gesti di dedizione,

le tue comunioni d’affetti

che ti fecero padre.

Mi stupì

la tua improvvisa e fanciullesca disponibilità

verso la discendenza, la  prole che noi,

figli tuoi,

ti demmo, prole che ti mise nella storia.

Allora mi fosti riconoscente.

Seppi custodire quei gesti che mi regalasti,

come una tua benedizione

come riconoscimento di un’appartenenza.

Lenta la pietà

mi sbocciò nella coscienza,

la preservai dalle erbacce con un lavorio di anni,

virgulto che maturò dopo quella notte nera,

quando te ne andasti solo,

con tutta la tua sofferenza.

 

 

 

Fratelli

 

Tante religioni sono tra di noi,

ed insieme portano un grande messaggio.

Tanti colori sui volti si distinguono,

la pace del padre tutti desideriamo,

chiediamo il perdono

per aver desiderato troppo.

L’odio per il diverso ha oltraggiato

gente di altra razza.

La forza ha sopraffatto

i più deboli.

L’indifferenza ha emarginato gli inabili.

Di questo noi ci siamo pentiti

anche se non abbiamo alzato la mano,

eravamo, però, nel mondo dei prepotenti.

Nuovi sentimenti ci animano

e l’essere nostro mite ci ritorna:

stanchi di un mondo vorace,

che ci affanna e ci tormenta,

desideriamo la pace della buona novella

che tanti profeti ci hanno portato.

Padre nostro, facci tutti fratelli.

 

 

Il lavoro e la natura

 

Campi lavorati e greggi belanti,

città operose e opere d’arte

mari solcati da navi,

terre segnate da strade,

razze diverse,

ricchezze prodotte

col lavoro paziente,

ma anche con la rapina,

col ferro e col fuoco.

Indifferenti gli animali

guardano l’uomo

che si muove industrioso

a logorare la natura primigenia.

Nessuno sa

dove questo moto finirà.

 

 

Il temporale

 

 

 

Un tuono,

il lampo abbaglia

una casa nella tempesta.

La notte si riprende

tutto sotto il velo nero.

 

 

La casa degli archi

 

In quella casa, con le stanze grandi,

i muri spessi, gli stucchi alle crociere del soffitto,

le finestre alte e strette, le sovrapporte,

con disegni di caccia o di lavoro agreste,

vissi una madre sempre indaffarata

nelle faccende domestiche, mai spensierata,

ed un padre preso nel lavoro o pronto alla partita.

Mi piace, però, ricordarla così com’era fatta,

anche se di arte non capivo nulla.

Nel cortile di quella casa degli archi,

che erano sul loggiato a due piani,

lavoravano tanti artigiani, qualche salariato,

cantavano e fischiettavano pezzi di operetta,

gridavano per poco, tutti avevano fretta.

C’erano un macellaio, un sarto ed un fornaio.

Veniva talvolta anche un notaio.

Operosi agivano nello stesso cortile, nello stesso ambiente,

dove passarono tante persone, dove conobbi tanta gente.

Nell’orto, insieme all’insalata,

maturavano cipolle, rapanelli e qualche patata.

C’era una grande vite che saliva fino ai balconi,

dove fiorivano gerani e altri fiori a ciondoloni.

Ricordo le finestre addobbate di fiori ai davanzali

sulla strada per le processioni,

con statue di madonne, di santi,

simboli cristiani, cantilene, ceri,

vesti diverse dei partecipanti.

Nel cortile c’era il campanile

della Confraternita che suonava le ore

e, per ricorrenze, ritmi con nomi strani,

che sentivo dire in dialetto ed ora non ricordo più.

Correvano sui tetti i gatti randagi al solito richiamo

che precedeva il pasto, della caccia ormai svogliati,

dinanzi alla preda per timore più volte ritirati.

Giacevano abbandonati negli scantinati,

bauli da viaggio, che erano serviti

a qualche mio antenato, in America emigrato

poi ritornato con una fortuna conquistata.

Insieme a mobili tarlati, accantonati,

grandi fotografie d’illustri personaggi coi baffoni,

o di donne compite coi capelli legati o fermati con spilloni,

giovanotti col colletto inamidato, foto di gruppo all’osteria,

al matrimonio, in lieta compagnia:

militari riveriti come blasoni di famiglia,

mi rimasero impressi nella memoria.

Vicino alle foto giacevano vecchi arnesi,

che erano serviti a mio nonno nei tempi andati,

gettati a caso, alcuni appesi.

Sotto il portico, in fondo ad una scala oscura,

buia da fare paura, una cantina,

che puzzava di mattoni ammuffiti,

con vicino un pozzo ormai in disuso.

Al riflesso della lampada,

che ne faceva balenare il fondo,

vedevo talvolta luccicar le acque,

profonde come il ventre della terra.

 

 

La lavandaia

 

Quel volto sempre uguale, gli occhi celesti,

stanchi e vuoti,

sempre le stesse vesti,

in un lutto che mai ti lasciò.

Lo sguardo assente non guardava nessuno,

una sorte avversa ti cambiò la vita

e ti costrinse a poveri e quotidiani gesti.

Con le grosse mani,

nerborute e rosse, aggrappate alle aste della carriola,

trascinavi tutta sola

alla fontana la biancheria,

che qualcuno ti aveva dato per la via,

per sostenere la vita tua e dei tuoi figlioli.

E tu la immergevi nell’acqua,

coi tuoi reiterati gesti, incurante delle stagioni,

a rompere il ghiaccio o a trovare refrigerio alla calura estiva.

Te ne andavi al dovere ancor giovane e forte,

o coi capelli già fatti grigi, per l’età e la fatica,

avviluppati nello scialle d’inverno,

chiusi in un nodo nella calda stagione,

trascorrevi la tua disperata esistenza

come un castigo

per aver osato vivere qualche notte d’ebbrezza.

Quante volte affondasti quelle mani nell’acqua,

per mondare i panni come se il gesto consumato

potesse redimerti da un presunto peccato.

Venne un giorno anche per te la morte:

ti fu concesso il perdono dall’aver osato

tanto quanto fu lecito ai mortali.

Non so chi ti pianse oltre ai tuoi figli.

Sempre i tuoi movimenti, il tuo andare

affaticato, il tuo sguardo fuggitivo e smarrito

mi rimarranno nella memoria,

come segno del dolore che avevi patito.

 

 

Le quattro stagioni

 

Primavera

 

Spira il vento tiepido dagli alti colli,

i prati fioriti lambiscono le nevi,

discendono a valle i rivi abbondanti,

vanno leggiadri gli animali ai novelli amori.

 

Estate

 

Le frutta mature colorano i mercati,

si diffondono i profumi dell’orto e dei fiori,

le voci festose e vivaci porgono sollievo

ai lavoranti trasudati alla calura.

 

Autunno

 

Si diffondono frutti di bosco.

Sfumano le nebbie:

un fascio di luce investe

foglie gialle sparse.

 

Inverno

 

L’acqua nei fossi corre sotto il ghiaccio,

profuma l’aria di legna bruciata,

dorme la terra innevata.

Al tocco della campana vanno scialli neri.

 

 

Memorie

 

La vita è un libro che abbiamo incominciato a scrivere

chissà quando.

Abbiamo imparato a farlo dai nostri genitori

che ci hanno regalato la matita per scrivere

e la carta su cui riportare le nostre esperienze,

descrivere i nostri sogni.

Ci hanno ammaestrati sulla grafia,

che col tempo abbiamo fatto nostra

sempre più nostra.

Ci hanno ispirato nei sentimenti

che ancora oggi ci animano dovunque siamo.

Cambiare libro significherebbe buttare via

questo nostro passato,

troppo ricco di esperienze,

piacevoli e dolorose ma utili

per capire la vita nostra e di chi cista accanto,

troppo bello per essere dimenticato,

troppo pieno di ricordi che comportano

soddisfazione, riconoscenza, umanità, pietà.

Nessuno potrà leggere questo libro

perché la grafia con cui è stato scritto

è troppo nostra!

 

 

Passaggi

 

I colori scandiscono il tempo

Le emozioni segnano la vita.

 

 

Scoperte

 

Profumi mediterranei inebrianti,

lunga fatica di camminate

tra patrimoni della storia

e monumenti sparsi

con gente ad essi consueta,

e la cortesia di viandanti,

notti stellate, voci del mare.

Graditi mi furono questi

come già la natura, la gente, i borghi

ed i rifugi delle mie montagne.

 

 

Torino

 

Fumano le nebbie autunnali,

cigolano i tramvai, corre la gente,

più che in una provincia, alle opere usate.

Sono i volti affannati,

alcuni sorridenti, altri crucciati:

Tutti hanno uno sguardo, nessuno ha un nome,

E’ la stessa vita anche con la calura estiva,

o coi rigori invernali.

Fosti bella Torino, un tempo,

coi tuoi viali sabaudi, i palazzi nobiliari,

le chiese barocche,

le palazzine di caccia nei dintorni,

i quartieri di una borghesia illuminata,

le ville di fine Ottocento alla Crocetta,

la collina coi parchi e le abitazioni dei signori,

i quartieri popolari ma decorosi.

E lì sei rimasta come una perla incastonata,

circondata da altre case senza nome.

Stai riscoprendo il tuo decoroso passato,

per l’opera attenta di chi ti ama ancora

per lasciarlo a chi vorrà far tesoro di te.

 

 

Vicino a me

 

Ancora non ti conosco,

di giorno in giorno ti scopro.

Seppi chi sono

da chi mi mise al mondo

ma accanto a te

mi vivo diverso.

Stemperi le mie ansie.

Trovo con stupore

qualcosa di nuovo nei tuoi gesti.

Non so che cosa regalarti,

ho solo la mia storia.

Vorrei farti gioire, ma talora soffri:

non so fare tuo

il mio mestiere di vivere.

Temo per le tue mosse incaute.

Vivo la felicità di meritarmi un fiore.

Quando chiedi, cerco di farti contenta.

Chissà se arriverò dove voglio con te.

Mi segui, mi precedi e mi accompagni:

questo m’importa.

Ho bisogno che ascolti i miei lamenti,

mi dia la licenza di gioire e di sognare,

come faccio con te, anche nel silenzio.

 

 

 

 

 

 

 
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